Due millenni di storia sviluppati attorno a un elemento vitale, l’acqua, testimone della nascita e dell’evoluzione di una delle più importanti civiltà del Nord Italia, i Celti di Golasecca. Non è un caso che le finestre del museo archeologico di Sesto Calende si affaccino proprio sul Ticino. Uno sguardo verso il fiume, che poche centinaia di metri più a Nord lascia le acque del Lago Maggiore per intraprendere il suo percorso verso il Po, è un modo per ricordare il passato e l’importanza di quella che fu a tutti gli effetti la “autostrada” della Preistoria e della civiltà che la percorse diventando un collegamento tra gli Etruschi e le altre popolazioni del centro Italia e le tribù celtiche del Nord Europa.

Quella dei Celti è una storia affascinante, di semplicità e adattamento, di sussistenza e di scambi commerciali, di contaminazione e ritualità. Fu l’Abate Giani, le cui spoglie sono custodite nella sala archeologica del museo di Gallarate, a scoprire e studiare per primo la cultura golasecchiana nei primi decenni dell’Ottocento.

Per riscoprirla oggi occorre tornare nei luoghi che la ospitarono, lungo le rive del Ticino, dove hanno sede i principali musei ad essa dedicati. Primo fra tutti quello di Sesto Calende che presenta la più ricca e completa collezione di reperti, vasellame, ornamenti, corredi funerari. Nelle sale del museo, accanto alle teche espositive, tutte dotate di audioguida e doppia narrazione multimediale (una tradizionale e una semplificata per i piccoli visitatori) trovano spazio allestimenti specifici dedicati alla didattica, come la ricostruzione di una capanna con il focolare e gli oggetti della quotidianità, l’area tattile del museo per i non vedenti e un filmato di presentazione che ricostruisce la vita tra Verbano e Ticino nell’Età del Bronzo.

Tra i maggiori esperti della cultura di Golasecca c’è il curatore del museo sestese, Mauro Squarzanti, che ci ha guidato durante la visita al sito espositivo insieme al vicesindaco di Sesto Calende Edoardo Favaron e il funzionario alla cultura, Loredana D’Agaro. «I primi reperti conservati a Sesto sono stati ritrovati ad Arolo di Leggiuno e risalgono al secondo millennio a.C., gli ultimi al quinto secolo d.C., tracce finali della presenza di questa civiltà su questo territorio – ha spiegato Squarzanti -. I resti dei siti funerari ben documentano alcuni elementi di vita quotidiana. Nei luoghi di sepoltura sono stati rinvenuti inoltre alcuni oggetti tipici dell’artigianato golassecchiano. I materiali con cui sono realizzati, provenivano anche da luoghi lontani, testimoniando la presenza di collegamenti importanti tra la cultura di Golasecca e popolazioni del centro come gli Etruschi e i celti del nord Europa». Una curiosità: fibule, spille, ciondoli e altri oggetti ornamentali – alcuni dei quali davvero caratteristici come quelli ritrovati nella tomba principesca “del Tripode”, mostrano l’attenzione di questa popolazione.

Da Sesto Calende la corrente delle acque del Ticino ci porta verso Golasecca. Arrampicandoci per la collina del Monsorino (con sentiero agrevole che richiede una decina di minuti) si arriva all’area dei primi scavi svolti dall’abate Giani – nativo di Golasecca – negli anni Venti dell’Ottocento. Il religioso interpretò le sepolture «come tracce di un accampamento nella zona della battaglia di Ticinum del 218 a.C., tra romani e cartaginesi» spiega Barbara Grassi, funzionario archeologico della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per Como, Lecco, Monza Brianza, Pavia, Sondrio e Varese.

«Il Monsorino è uno dei pochi luoghi dove si possono visitare i resti di antichi sepolcreti golasecchiani», spiega ancora Barbara Grassi. “La ricerca dell’abate Giani portò alla ribalta questo sito: nel 1835 Gabriel de Mortillet venne dalla Francia per vedere le antiche vestigia e capì che si trattava non di resti risalenti all’età romana, ma molto più antichi, riconducibili alla civiltà celtica». Queste ricerche fecero di «un luogo conosciuto a livello internazionale».

Al Monsorino l’area nel bosco è oggi sempre accessibile ed è stata in parte acquisita in proprietà dallo Stato. «Le strutture funerarie avevano un recinto di pietre che conteneva l’urna cineraria vera e propria. Si notano anche degli allineamenti di pietre, inizialmente interpretati come assi di accesso all’area e per questo denominati in passato allèe: studi più recenti li hanno invece ricondotti a sepolture femminili, mentre quelle maschili avevano forma circolare».

Altre sepolture furono invece ritrovate nella zona del Monsorino un secolo dopo, «in occasione di una grande opera, accompagnata da accurata indagine archeologica». Si trattava dei lavori, nel 1985, per la costruzione dell’autostrada A26, che hanno «portato alla luce 45 nuove sepolture». La forte presenza umana in zona (siamo nell’area di Malpensa) ha favorito, in questo, gli scavi archeologici: nel 2014 i lavori per il prolungamento della ferrovia tra terminal 1 terminal 2 dell’aeroporto hanno consentito di scoprire decine di nuove sepolture risalenti alla «fase formativa della Civiltà di Golasecca, nell’età del Bronzo tardo». Le ottanta tombe rinvenute a Malpensa nel 2014 hanno fatto emergere anche alcune specificità: «In alcuni casi i defunti erano collocati sì all’interno della consueta cassettina in pietra, ma probabilmente in un contenitore organico di cuoio o fibre vegetali», andato perduto nei secoli.

I nuovi ritrovamenti – da quelli del 1985 a quelli più recenti – hanno stimolato anche nuovi allestimenti museali. Nel 2017 ha aperto a Malpensa, all’interno della stazione del Terminal 2, un’area espositiva – allestita con Sea e Ferrovie Nord Milano – aperta sette giorni su sette e completamente gratuita, articolata anche su installazioni multimediali che riproducono decorazioni e riti funerari, propongono immagini degli scavi attuati con «cinquemilasettecento ore di lavoro sul campo hanno permesso di raccogliere moltissimi dati», continua Grassi. Le teche conservano poi una selezione di reperti, urne, corredi, ma anche un recipiente per bevande rituali, esposto insieme ai frammenti di bicchieri trovati accanto.

Dotazioni multimediali e reperti costituiscono anche la ricchezza del nuovo spazio Golasecca Archeologia Multimediale, inaugurato lo scorso 27 settembre. «Il Comune di Golasecca e la Soprintendenza, grazie a un finanziamento di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo, hanno allestito questo spazio in cui hanno trovato posto i reperti della collezione e anche i reperti degli scavi dell’autostrada, esposti qui per la prima volta: tutti i corredi sono stati restaurati e adeguatamente studiati ed è stata tratta una pubblicazione che li descrive». Una sezione ricorda il ruolo di Maria Adelaide Binaghi, appassionata studiosa a cui si devono molta della produzione scientifica su Golasecca. La parte multimediale comprende ricostruzioni e anche un gioco interattivo rivolto ai ragazzi, mentre un video propone poi il lavoro svolto dagli alunni delle scuole locali, a ricordare un rapporto con il passato profondamente radicato.

Anche nella storia degli studi della Civiltà di Golasecca emerge un ruolo attivo degli studiosi del territorio. A Gallarate particolarmente attiva fu la Società Gallaratese degli Studi Patri, il cui museo – in via Borgo Antico, ospitato nel chiostrino del duecentesco convento di San Francesco – ospita una interessante sezione archeologica con reperti golasecchiani. «La maggior parte provengono dall’attività di ricerca e di scavo condotte nel corso degli anni Settanta dalla squadra archeologica della Studi Patri sia nel comprensorio del Monsorino sia nei pressi dell’aeroporto» spiega Matteo Scaltritti, presidente della società gallaratese.

Nella stessa sala sono tumulati anche i resti dell’abate Giani, «colui che in qualche misura ha scoperto la civiltà di Golasecca» con i suoi studi ottocenteschi. L’abate era stato sepolto a Milano, ma la tomba fu distrutta da un bombardamento aereo nella Seconda Guerra Mondiale: i resti furono dunque trasferiti a Gallarate e sepolti all’interno del museo. Una scelta per ricordare il religioso che, inconsapevolmente, aprì la strada allo studio degli “argonauti del Ticino”.